Gabriele Boselli - 30-05-2007
Anche in questo caldissimo (metereologicamente) maggio buona parte della gente comune (senza potere e con pochi soldi) tace o chiacchiera vanamente, si ammala nelle fabbriche, schiatta tranquillamente nei cantieri, s'intorda sulle autostrade, s'intontisce nelle discoteche, s'imbecillisce alla televisione, legge rotocalchi; al nord vota entusiasta i potenti e i ricchi nel segno di lega o forzitalia; è indifferente alla depredazione e al depotenziamento dello Stato, alla povertà della scuola e alla demolizione della giustizia. Si guarda il "teatrino" programmato in TV, il reality che ha sostituito realtà, e tanto basta ai più.
La politica pura (conoscenza e progettualità fondazionalmente disinteressate e orientate a una gamma di fini eticamente condivisibili) non è morta ma è sempre più percepita -e spesso effettivamente i suoi professionals corrispondono alla percezione- come denotata da insignificanza (Bauman 2001). L'educazione dei figli e la stessa sicurezza sociale sono cercate non con la garanzia del collettivo ma - chi può - per via privata (ancora Bauman, 2004). Vi è ancora spazio per un pensiero a trascendentalità illimitata, universale della democrazia pensante o solo per quello della plutocrazia? Ovvero, quanto spazio ha un pensiero non-propagandistico ed effettivamente al servizio della cosa pubblica?
Certo, il nostro ragionare di insegnanti e ispettori (da concorso pubblico per esami e titoli) nel loggione della politica non è sereno; è scritto da un punto di coscienza alto ma politicamente infelice. Tuttavia, mentre i filosofi (comprendendo in questa categoria, come all'inizio del sapere occidentale, ogni soggetto di ricerca disinteressata) discutono in libertà, dominano saperi di mascheramento asimmetricamente normativi, ovvero ingiusti, e produttivi di smisurati risultati economici per pochi conseguiti ad altissimi costi umani e ambientali. La ricerca e l'insegnamento di qualsiasi sapere -dalla politica alla fisica- sono ormai promossi all'interno del sintagma finanziario e dunque dell'etica utilitarista (culto delle competenze), delle metodologie di tipo programmatorio (obiettivi etc) e dei sistemi valutativi oggettivanti. Scompare dall'orizzonte della visibilità l'idea di senso, mentre tutta l'intenzionalità personale e collettiva è risucchiata dagli obiettivi, o sensi nani, che del senso sono la caricatura. Mentre la rendicontazione è accuratissima in riferimento a obiettivi di ordine economico (salvo casi Enron- Arthur/Andersen o Parmalat) non si rende conto di nulla rispetto ai grandi valori dell'umanità, ai costi spirituali delle trasformazioni economiche. Ne sono manifestazione in ambito scolastico il trionfo della competenza sulla conoscenza, del criterio di utilità sulla purezza (gratuità), del risultato sul principio, della didattica del dio Mercato sulla paideia della tradizione ebraico-cristiana.
L'approccio minimalista comporterebbe la rinuncia a trasformare tutto il mondo, la speranza nella (propria e di chi altri voglia salvarsi) salvezza. E niente altro. Ma che tristezza, per noi soggetti politici e pedagogici consapevoli, pensare dalla collina della scienza alla città ove infuria la peste mediatica e miliardi di ex-cittadini incretiniscono e s'insudditano alla luce azzurrina di tubi catodici o schermi LCD!
La politica pura (conoscenza e progettualità fondazionalmente disinteressate e orientate a una gamma di fini eticamente condivisibili) non è morta ma è sempre più percepita -e spesso effettivamente i suoi professionals corrispondono alla percezione- come denotata da insignificanza (Bauman 2001). L'educazione dei figli e la stessa sicurezza sociale sono cercate non con la garanzia del collettivo ma - chi può - per via privata (ancora Bauman, 2004). Vi è ancora spazio per un pensiero a trascendentalità illimitata, universale della democrazia pensante o solo per quello della plutocrazia? Ovvero, quanto spazio ha un pensiero non-propagandistico ed effettivamente al servizio della cosa pubblica?
Certo, il nostro ragionare di insegnanti e ispettori (da concorso pubblico per esami e titoli) nel loggione della politica non è sereno; è scritto da un punto di coscienza alto ma politicamente infelice. Tuttavia, mentre i filosofi (comprendendo in questa categoria, come all'inizio del sapere occidentale, ogni soggetto di ricerca disinteressata) discutono in libertà, dominano saperi di mascheramento asimmetricamente normativi, ovvero ingiusti, e produttivi di smisurati risultati economici per pochi conseguiti ad altissimi costi umani e ambientali. La ricerca e l'insegnamento di qualsiasi sapere -dalla politica alla fisica- sono ormai promossi all'interno del sintagma finanziario e dunque dell'etica utilitarista (culto delle competenze), delle metodologie di tipo programmatorio (obiettivi etc) e dei sistemi valutativi oggettivanti. Scompare dall'orizzonte della visibilità l'idea di senso, mentre tutta l'intenzionalità personale e collettiva è risucchiata dagli obiettivi, o sensi nani, che del senso sono la caricatura. Mentre la rendicontazione è accuratissima in riferimento a obiettivi di ordine economico (salvo casi Enron- Arthur/Andersen o Parmalat) non si rende conto di nulla rispetto ai grandi valori dell'umanità, ai costi spirituali delle trasformazioni economiche. Ne sono manifestazione in ambito scolastico il trionfo della competenza sulla conoscenza, del criterio di utilità sulla purezza (gratuità), del risultato sul principio, della didattica del dio Mercato sulla paideia della tradizione ebraico-cristiana.
L'approccio minimalista comporterebbe la rinuncia a trasformare tutto il mondo, la speranza nella (propria e di chi altri voglia salvarsi) salvezza. E niente altro. Ma che tristezza, per noi soggetti politici e pedagogici consapevoli, pensare dalla collina della scienza alla città ove infuria la peste mediatica e miliardi di ex-cittadini incretiniscono e s'insudditano alla luce azzurrina di tubi catodici o schermi LCD!
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